Terzo numero di Sabot: S.P.A. (Società Per Addomesticazione)

Da oggi è in distribuzione il terzo numero di “Sabot – Foglio discontinuo di pratiche continue”. Un foglio, vale la pena di ricordarlo, autoprodotto, che non riceve finanziamenti nè patrocini da partiti o sindacati.
Lo trovate all’aperitivo organizzato da Saperi Banditi alle 18 di stasera e in giro per la città e i dipartimenti dai prossimi giorni.
Per chi volesse consultarlo online o volesse stamparlo, Sabot n3 – SPA la versione in pdf.

Costruire evasioni – presentazione del libro di Prison Break Project

(dal sito della casa editrice indipendente Be Press)

Prison Break Project, “Costruire evasioni. Sguardi e saperi contro il diritto penale del nemico”. edizioni Be Press, 2017.

in italia, dal 2001 in poi, la repressione rivolta ai movimenti sociali ha visto una forte accelerazione. Se tale giro di vite può in parte essere spiegato con una diminuita incisività delle lotte a partire dagli anni 80, esso rischia d’altro canto di ostacolare e ridurre ulteriormente la conflittualità sociale.
La repressione è l’effetto combinato di dispositivi che si muovono su binari diversi. Non è solo materia di tribunali, ma anche di politici e media, nutrendosi di meccanismi di etichettamento, isolamento e moral panic volti a costruire e designare un nemico pubblico da sconfiggere per preservare la quiete sociale. Per comprendere appieno il salto in avanti che si è prodotto, è tuttavia necessario considerare anche il piano giuridico, esaminando le evoluzioni di cinque dispositivi sempre più usati contro le lotte sociali: l’accusa di terrorismo, i reati associativi, il delitto di devastazione e saccheggio, le misure di prevenzione e la repressione economica.
A ciò si accompagnano alcune tendenze generali dell’attuale sistema punitivo, come l’anticipazione e la massimizzazione della pena, il recupero dei reati fascisti e la messa a punto di nuove e più dure incriminazioni.
Il testo si confronta non solo con diverse inchieste giudiziarie abbattutesi nell’ultimo decennio sui movimenti sociali, ma fa riferimento anche alle eterogenee pratiche di lotta e resistenza messe in atto in Italia e non solo, incrociando spesso la strada delle mobilitazioni No Tav. Non ci troviamo in una situazione di emergenza democratica o in uno stato d’eccezione: la guerra senza quartiere al “nemico pubblico” è la regola di qualsiasi governo. Possiamo allora parlare di diritto penale del nemico, per inquadrare le dinamiche attuali e considerare la questione della repressione anche a partire dai rapporti di forza tra il potere e i suoi oppositori. Il nostro punto di vista, dal basso e dal ventre dei movimenti, non vuole dettare linee o giudizi ma, immaginando una visione ricompositiva, formulare ipotesi e suggerimenti per provare ad inceppare il meccanismo repressivo.

Prison Break Project
è un progetto di analisi sui fenomeni repressivi che colpiscono i movimenti sociali e intende alimentare riflessioni che possano essere di sostegno alle lotte. Il collettivo anima un blog (prisonbreakproject.noblogs.org) e ha inoltre autoprodotto nel 2014 il libretto “
terrorizzare e reprimere”, pubblicato durante la campagna di solidarietà con i no tav arrestati per terrorismo. Prison Break Project crede che solo rivoltando il sapere tecnico contro il potere, alleandosi tra diversi, avendo chiaro l’obiettivo comune, possiamo aprire brecce nelle pareti che ci bloccano e ci tengono isolati.

Un natale fra bombe e ipocrisia

Con l’inasprirsi della guerra in Siria, il silenzio mediatico su di essa è sicuramente calato. A questo, però, non è corrisposta un’informazione che fosse, soprattutto, in grado di contestualizzare quanto stia avvenendo. Per questo, anche sulla spinta dell’incontro sulla Siria del 7 dicembre (all’interno delle due giorni di discussioni contro la guerra)abbiamo provato a rendere maggiormente chiari alcuni punti.

Mappa sulle risorse contese della Siria, tratta dall FInancial Times: http://ig.ft.com/sites/2015/isis-oil/

Negli ultimi anni si sente sporadicamente parlare del conflitto in Siria. Nelle scorse settimane si è invece assistito ad un vero e proprio boom mediatico con i riflettori puntati su Aleppo. La reazione della società civile non si è fatta attendere: manifestazioni ed eventi in sostegno del popolo siriano sono state organizzate pressoché ovunque. Le vere vittime di questo conflitto, come di ogni altro, sono i civili. Secondo l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani (SOHR) sono morti 86.692 civili dall’inizio delle ostilità a settembre 2016. I rifugiati siriani espatriati sarebbero inoltre 4.088.078. Questi fatti sono però scomparsi improvvisamente dalle cronache quotidiane, non appena si è verificato l’ennesimo attentato in Europa. L’attacco di Berlino ha innescato la classica risposta securitaria e xenofoba, nonché una scontata suddivisione in civili di serie A e civili di serie B. Anche il M5S si è accomodato sulla poltrona delle facili generalizzazioni chiamando a gran voce la chiusura delle frontiere. L’attentato in Germania e l’omicidio dell’ambasciatore russo in Turchia non sono altro che dirette conseguenze del conflitto siriano stesso. Entrambi i responsabili di tali azioni hanno infatti rivendicato le vittime civili in Siria. Vediamo quindi violenza chiamare altra violenza, guerra chiamare altra guerra.

Quanto sta accadendo oggi in Siria non si può ridurre però all’idea che lo scontro sia fra il cattivo regime di Assad e i combattenti per la libertà e, neppure, secondo un’analisi opposta ma speculare, un Assad anti-imperialista che affronta una ribellione totalmente manovrata dagli Stati Uniti. La guerra che sta lacerando la Siria è soprattutto il prodotto di uno scontro fra potenze per le risorse della regione, strategica per il passaggio del gas, per cui ogni Stato appoggia una diversa fazione con l’obiettivo di perseguire i propri fini e le fazioni sul campo sono anche molto diverse fra di loro. Mentre da un parte c’è il regime di Assad, intenzionato a mantenere il potere, appoggiato dalle forze sciite, iraniane, libanesi e dalla Russia, dall’altra c’è lo Stato Islamico (IS) che cerca il controllo sulle zone petrolifere, la Turchia che intende approfittare dell’instabilità per annientare le forze curde, l’Arabia Saudita che appoggia l’IS contro Assad, e gli Stati Uniti che appoggiano alcuni gruppi ribelli. In favore del regime di Assad non potevano inoltre mancare le retoriche pro-regime, messe in atto dalle forze neofasciste italiane. L’8 ottobre, un gruppo di Forza Nuova, ha fatto irruzione nello spazio espositivo della mostra Caesar, relativa alle torture nelle carceri del regime. A quanto pare, per questi noti revisionisti, la mostra avrebbe rappresentato un “intollerabile mistificazione”. A questo si aggiungono dichiarazioni improponibili come quelle del vicepresidente di Casapound, Simone di Stefano, che negano il massacro ironizzando sulla condizione dei bambini di Aleppo, attribuendogli ricchezze che non possiedono. Un’altra dichiarazione a sostegno di Assad, è quella di Eva Bartlett (attivista e blogger pro-Palestina), il cui video, che ha fatto il giro dei social networks, supportava argomentazioni “negazioniste” in favore di Assad e Putin. Evidentemente l’oppressione di Assad ai danni del popolo siriano non è paragonabile quella inferta da Israele ai palestinesi.

Quello che i media tacciono riguarda il coinvolgimento diretto delle potenze occidentali a sostegno di tale conflitto, il massacro dei civili siriani non assolve infatti alcun governo. L’amore per i facili soldoni non è un’esclusiva dei paesi non democratici ed i governi europei sono implicati nel perpetuarsi di queste logiche belliche attraverso il commercio, legale e illegale. Proprio questo mese la società informatica italiana “Area”, che fornisce a molte procure le tecnologie per le intercettazioni, è stata accusata di aver esportato illegalmente il suo sistema in Siria. Avrebbe infatti violato l’embargo comunitario creato apparentemente per evitare di supportare economicamente i regimi dittatoriali. Nonostante ciò, questo sistema è stato usato tranquillamente da Assad per intercettare i suoi oppositori. Quando si tratta di controllare gli oppositori, democrazie e dittature sembrano insomma trovare dei punti d’intesa. Un altro esempio di tale ipocrisia è riportato da un’inchiesta giornalistica che denuncia la vendita di armi e bombe italiane e inglesi all’Arabia Saudita. Questi armamenti partiti dai porti di Cagliari e Londra arriveranno dunque, direttamente o indirettamente, sulle teste dei civili siriani e yemeniti (una guerra che i media insabbiano nel silenzio).

Nella confusione e nelle tortuosità della real politik una cosa appare evidente: l’ipocrisia dei governi occidentali, pronti a piangere i morti e invocare la pace, ma ancora più pronti ad appoggiare qualcuno degli attori coinvolti per i propri interessi, mentre le industrie belliche ingrassano con la vendita di armi e si cerca di tenere lontani i profughi prodotti dal conflitto con la militarizzazione delle frontiere e l’appoggio al regime turco di Erdogan. Occorre fare un po’ di chiarezza e andare oltre le immagini che tutti i giorni ci vengono mostrate sui principali media di informazione. Stare dalla parte degli oppressi è l’unica prospettiva che riteniamo valida per comprendere la realtà al di fuori delle logiche di dominio.

Thales e Finmeccanica in università? Non staremo in silenzio!

Nella tarda mattinata di oggi – 14 dicembre – siamo andati a volantinare al Dipartimento di Ingegneria e Scienza dell’Informazione della F di Povo un breve testo per portare all’attenzione degli studenti alcuni semplici fatti: che nella stessa mattinata si stava svolgendo, in un aula del dipartimento, un incontro con un docente francese ce lavora per un impresa dell’industria bellica (Thales spa), sviluppando tecnologie applicate ai mezzi militari.
Mentre distribuivamo il volantino davanti all’aula in questione, ci si è presentato un professore del dipartimento (che abbiamo in seguito scoperto lavorare per Eledia) dicendoci dapprima che non potevamo entrare nel dipartimento senza badge (!), in seguito che non potevamo volantinare (!!) e infine che non potevamo volantinare senza l’autorizzazione del direttore di dipartimento (!!!).
Il fastidio del professore in questione di fronte al nostro volantinaggio (che è proseguito in tranquillità) ci è sembrato il segnale di come sia problematico per l’ateneo trentino anche il semplice fatto che si ribadiscano delle verità sotto gli occhi di tutti: che dentro le strutture universitarie agiscono aziende e centri di ricerca che lavorano sulla guerra e per la guerra.
E loro certamente hanno tutte le autorizzazioni necessarie per fare quello che fanno.

Di seguito il volantino distribuito:

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Sull’inaugurazione della nuova biblioteca

“Un giorno trovai per caso un’incisione raffigurante un architetto dell’India antica: un uomo seduto al centro della casa, armato di una lunga pertica, con la quale indicava agli operai dove posare la pietra. Stare seduto e dare ordini ai muratori: avevo trovato la mia vocazione. Renzo Piano (architetto)”
           [da Architettura e anarchia di Jean Pierre Garnier]

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Sabato 19 Novembre l’Ateneo trentino ha celebrato l’inaugurazione della nuova Biblioteca Universitaria Centrale, situata nel complesso
residenziale delle Albere e costata ben 46,78 MILIONI DI EURO. La solenne cerimonia, oltre che dell’illustrissimo architetto Renzo Piano, ha visto la partecipazione del presidente della Provincia Ugo Rossi. del sindaco Andreatta e del rettore Paolo Collini,
Proprio quest’ultimo, ha dichiarato che la struttura “sarà una biblioteca per tutti i trentini, aperta non solo a studenti,
ricercatori e docenti”. Le sue parole non hanno dovuto attendere per essere smentite, poco dopo infatti degli studenti del collettivo Refresh intenti a contestare la cerimonia venivano allontanati dalle forze dell’ordine.
Come credere anche stavolta all’inganno del taglio delle borse perché “non ci sono soldi” mentre milioni vengono spesi in una struttura inutile? Per di più l’apertura della Biblioteca alle Albere non è che un’astuta mossa per rilanciare l’immagine di un quartiere fantasma abitabile solo da ricchi, visti i prezzi esorbitanti dei suoi immobili, e per costringere chi ha bisogno dei servizi bibliotecari a recarsi nelle sue strade, vissute per ora solo da telecamere e guardie private.
La Biblioteca Universitaria Centrale delle Albere e la sua inaugurazione ci offrono un riflesso dell’immagine dell’università che si vuole imporre: un progetto a favore della classe dirigente e imprenditoriale, dove gli studenti – quelli che vi possono accedere – hanno il ruolo di semplici spettatori, passivi e applaudenti.

La città e il suo rovescio: incontro con Jean Pierre Garnier

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LA CITTÀ E IL SUO ROVESCIO
Ciclo di incontri con Jean-Pierre Garnier in occasione della presentazione del suo primo libro tradotto in italiano, Anarchia e architettura: un binomio impossibile seguito da Lo spazio indifendibile: la pianificazione urbana nell’epoca della sicurezza, Nautilus, Torino, 2016.

L’argomento principale da cui si svilupperanno gli interventi di Garnier è quello del cosiddetto “urbanismo securitario”, la cui teoria e pratica risale agli anni ’70 e in particolare agli Stati Uniti dove apparvero due libri, uno del criminologo Ray Jeffery intitolato Prevenzione del crimine attraverso la progettazione degli ambienti, l’altro dell’architetto Oscar Newman, Lo spazio difendibile: prevenzione del crimine attraverso la progettazione urbana. In seguito approderà in Europa, prima diffondendosi in modo massiccio in Inghilterra e in seguito in Francia, che tradurrà il concetto con “architettura di prevenzione situazionale”, ovvero: “organizzare i luoghi per prevenire il crimine”.
Presupposto di partenza di tutte queste teorie è che esisterebbero degli spazi urbani favorevoli al crimine: ma sebbene l’idea non fosse affatto nuova, la grande novità stava nell’approccio con cui veniva affrontato il problema. Ovvero, prima della “svolta neoliberista” che cominciò a imporsi in quel periodo, gli abitanti degli spazi criminogeni (i quartieri popolari e malfamati delle grandi città, ad esempio) venivano considerati piuttosto come vittime di quegli stessi luoghi, che dunque andavano “risanati” per il “bene” dei loro abitanti e della società intera. In seguito prevarrà un nuovo significato, in accordo con l’importanza che andava assumendo la “responsabilità personale” a scapito delle “cause sociali” nell’affrontare la questione della delinquenza urbana: lo spazio criminogeno sarebbe quello in cui l’architettura e l’urbanistica favorirebbero i delinquenti.
L’architettura di prevenzione situazionale si sviluppa inizialmente attorno a quella che Nan Ellin definì “architettura della paura”: la nuova urbe diventa una “città-fortezza”, pattugliata da forze dell’ordine in assetto militare, sempre più sorvegliata dalle telecamere ma anche dagli stessi cittadini (il famigerato Neighborhood watch o vigilanza da parte dei cittadini), mentre le classi più abbienti tendono ad andare ad abitare in enclavi super-protette, gated communities o comunità chiuse, zone residenziali controllate da recinzioni, mura e polizia privata. In generale si può parlare di “architettura difensiva”, cui obiettivo sarà quello di riconfigurare i luoghi per influenzare i comportamenti con l’aiuto di tutta una serie di dispositivi materiali di protezione: muri, barriere, recinzioni, inferriate, terrapieni, fossati, siepi rinforzate… a cui si aggiungono le tastiere digitali che controllano gli accessi, telecamere e polizia. E al tempo stesso eliminando tutti quegli elementi che possono indurre i delinquenti reali o potenziali a sentirsi sul proprio terreno (vicoli ciechi, anfratti, tunnel, passarelle, corridoi, atrii traversanti, tetti terrazzati…)
In seguito questo modello verrà giudicato eccessivo e addirittura contro-producente, perciò si passerà a una nuova fase nell’affrontare la questione sicurezza in ambiente urbano: l’obiettivo sarà quello di conciliare sicurezza e urbanità. Architetti, urbanisti e paesaggisti dovranno cercare soluzioni in grado di coniugare il bisogno di protezione e la necessità di non costruire uno spazio urbano troppo “poliziesco”, motivo per cui dovranno trovare il modo di “camuffare” gli interventi securitari dietro le parvenze di una “città condivisa”, a misura d’uomo, solidale e tutte le banalità – o meglio, le menzogne – che si sentono ripetere da politici e pianificatori urbani dei giorni nostri.
Ma al giorno d’oggi siamo a un’ulteriore tappa nello sviluppo di queste pratiche e teorie: preso atto che la società è sempre più “fluida”, anche la delinquenza sarebbe sempre più “mobile e volatile”: può succedere di tutto ovunque e in qualsiasi momento, quindi è ora di anticipare l’inprevedibile, di prevedere l’improbabile. A tal proposito si parlerà della necessità di una “governance dell’aleatorio”. Ai giorni nostri tra gli spazi urbani considerati maggiormente “a rischio” ci sono anche quelli frequentati da persone di ogni tipo: infrastrutture di trasporto, centri commerciali, luoghi di svago, piazze del centro città… ovvero quei luoghi in cui maggiormente si concentrano i “flussi”. Si tratterà allora di creare dispositivi per separare e canalizzare i flussi di persone, limitare gli incroci per evitare imbottigliamenti e congestioni propizi a tutta una serie di atti malevoli – dagli scippi alle sommosse – così come a installare dei “perimetri di sicurezza” che si possano rimuovere o ampliare a seconda delle circostanze (ne sanno qualcosa i NOTAV che, in trasferta a Lione, si ritrovarono “ingabbiati” in una piazza del centro città) e servono a smistare e filtrare gli utenti in funzione della legittimità riconosciuta alla loro presenza nel dato luogo da securizzare, senza dimenticare le “corsie di circolazione” riservate alla polizia per permettere un suo intervento rapido.
Tuttavia si potrebbe concludere che questo “spazio difendibile” si dimostri piuttosto indifendibile. Innanzitutto perché l’esperienza insegna che a ogni ostacolo posto alle attività criminali più comuni, aggressori determinati, esperti e organizzati riusciranno sempre ad aggirarlo; inoltre, a causa dell’ambiente paranoico che genera, contribuisce a mantenere se non ad accentuare il sentimento di insicurezza e diffidenza che prevale oggi. Infine perché qualsiasi intervento che voglia risolvere i problemi sociali riducendoli a una questione di forma urbana (ad esempio lo spazialismo: non riuscendo a controllare le condizioni generali che determinano la comparsa di fenomeni di “violenza urbana” e la domanda di sicurezza, l’azione dei poteri pubblici e la riflessione degli esperti che li consigliano tendono a ripiegare sull’organizzazione dei luoghi, come se ciò che avviene avesse un’origine locale e spaziale) è votato al fallimento: i fatti che emergono nella città non necessariamente provengono dalla città, ma hanno origine altrove, un altrove che è allo stesso tempo da nessuna parte e dappertutto, vale a dire il capitalismo globale.

Durante gli incontri con Garnier verranno affrontati anche altri temi, di cui il sociologo francese si occupa ormai da tempo. È il caso ad esempio del concetto di gentrification, ovvero la trasformazione e “riqualificazione” dei quartieri un tempo popolari e in genere situati nei centri cittadini, a favore di una classe media “creativa”: in realtà la gentrificazione è l’espulsione delle classi popolari dai quartieri popolari, motivo per cui bisognerebbe parlare di “spopolamento” dei quartieri popolari, con un significato specifico: non tanto in senso demografico o geografico di desertificazione, quanto in senso sociologico di estromissione di queste classi.
Oppure della nuove trasformazioni vissute dalle grandi città che diventano, nel lessico ben più che nella pratica, metropoli o come si dice da noi città metropolitane: un concetto che non va preso nel senso scientifico del termine, ma lo è diventato in senso pubblicitario, mediatico. Una denominazione di origine sempre meno controllata che serve a “vendere” la città ai suoi abitanti e, soprattutto, a degli attori esterni.

Infine, proveremo ad affrontare l’eterno dilemma del “che fare”. Oggi si assiste a un ritorno in auge della questione sociale, dopo un ventennio di assopimento, e una delle parole d’ordine che sono tornate a circolare è quella di diritto alla città, formulata ormai cinquant’anni fa da Henri Lefebvre e rilanciata dal geografo marxista statunitense David Harvey. Vedremo come anche questo termine sia fatto oggetto di recupero, oggi come ieri, soprattutto da parte di una certa sinistra riformista che adopera un linguaggio apparentemente radicale per recuperare le pratiche popolari e attirare su di sé consensi e voti; di come le lotte difensive che stanno nascendo qua e là, anche in ambito cittadino, oscillino tra uno slancio ideale rivoluzionario e pratiche assai più modeste che si iscrivono nell’orbita del cittadinismo; di come i poteri pubblici ed economici abbiano tutto l’interesse a recuparare e disarmare l’azione “dal basso” nella prospettiva di una cogestione dell’ordine cittadino – o sussidiarietà, lasciare organizzare dalla “base” la maggior parte delle faccende e limitarsi a imporre dall’alto quelle più importanti. E molto altro ancora.
Jean-Pierre Garnier è nato a Le Mans nel 1940. Si è laureato presso l’Istituto di studi politici di Parigi nel 1963 con tesi in sociologia urbana e gestione del territorio e ha ottenuto due dottorati, prima in sociologia urbana all’Università di Tolosa nel 1972, poi in urbanesimo e pianificazione urbana all’Università di Parigi Créteil nel 1977.
Dal 1963 al 1966 ha lavorato all’Institut d’Aménagement et d’Urbanisme della Région Parisienne occupandosi di pianificazione urbana; dal 1966 al 1971 è stato a L’Avana all’Istituto di pianificazione fisica di Cuba dove ha lavorato alla preparazione del Piano Direttivo della città; poi dal 1971 al 1975 ha insegnato nel dipartimento di geografia urbana dell’università di Tolosa. Dal 1975 al 1983 ha insegnato alle università di Parigi Vincennes e Sorbona, e dal 1977 al 2005 è stato professore di sociologia urbana alla Scuola speciale di architettura di Parigi; infine, dal 1983 al 2007 ha occupato il posto di ricercatore presso il CNRS.
Oltre ai libri pubblicati, ha scritto innumerevoli articoli in libri e riviste, opuscoli; ha tenuto conferenze, interviste, trasmissioni radiofoniche; è membro del consiglio di redazione di riviste quali Espaces et Sociétés, L’Homme et la Société e Utopie Critique. Scrive regolarmente sulla rivista in rete internazionale Divergences oltre che su Réfractions e Le Monde libertaire.

BIBLIOGRAFIA

Une ville, une révolution: La Havane. De l’urbain au politique, Paris, Anthropos, 1973.
La comédie urbaine ou La Cité sans classes (con Denis Goldschmidt), Paris, Maspero, 1977.
Le “Socialisme” à visage urbain. Essai sur la “local-démocratie” (con Denis Goldschmidt), Paris, Editions Rupture, 1978.
La Deuxième Droite (con Louis Janover), Paris, Laffont, 1987.
Le capitalisme high-tech, Paris, Spartacus, 1988.
La Pensée aveugle. Quand les intellectuels ont des visions (con Louis Janover), Paris, Spengler, 1994.
Des barbares dans la Cité. De la tyrannie du marché à la violence urbaine, Paris, Flammarion, 1996.
La Bourse ou la ville. Paris, Paris-Méditerrannée, 1997.
Le nouvel ordre local. Gouverner la violence, Paris, L’Harmattan, 2000.
“ La voluntad de no saber ”, in Contra los territorios del poder. Por un espacio público de debates y… de combates, Barcelona, Virus editorial, 2006.
Une violence éminemment contemporaine Essais sur la ville, la petite bourgeoisie intellectuelle et l’effacement des classes populaires, Marseille, Agone, 2010.
Anarchia e architettura: un binomio impossibile seguito da Lo spazio indifendibile: la pianificazione urbana nell’epoca della sicurezza, Nautilus, Torino, 2016.

Inoltre, sono disponibili traduzioni di altri testi di Garnier a questo indirizzo:
https://istrixistrix.noblogs.org/

Nautilus, novembre 2016