La città e il suo rovescio: incontro con Jean Pierre Garnier

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LA CITTÀ E IL SUO ROVESCIO
Ciclo di incontri con Jean-Pierre Garnier in occasione della presentazione del suo primo libro tradotto in italiano, Anarchia e architettura: un binomio impossibile seguito da Lo spazio indifendibile: la pianificazione urbana nell’epoca della sicurezza, Nautilus, Torino, 2016.

L’argomento principale da cui si svilupperanno gli interventi di Garnier è quello del cosiddetto “urbanismo securitario”, la cui teoria e pratica risale agli anni ’70 e in particolare agli Stati Uniti dove apparvero due libri, uno del criminologo Ray Jeffery intitolato Prevenzione del crimine attraverso la progettazione degli ambienti, l’altro dell’architetto Oscar Newman, Lo spazio difendibile: prevenzione del crimine attraverso la progettazione urbana. In seguito approderà in Europa, prima diffondendosi in modo massiccio in Inghilterra e in seguito in Francia, che tradurrà il concetto con “architettura di prevenzione situazionale”, ovvero: “organizzare i luoghi per prevenire il crimine”.
Presupposto di partenza di tutte queste teorie è che esisterebbero degli spazi urbani favorevoli al crimine: ma sebbene l’idea non fosse affatto nuova, la grande novità stava nell’approccio con cui veniva affrontato il problema. Ovvero, prima della “svolta neoliberista” che cominciò a imporsi in quel periodo, gli abitanti degli spazi criminogeni (i quartieri popolari e malfamati delle grandi città, ad esempio) venivano considerati piuttosto come vittime di quegli stessi luoghi, che dunque andavano “risanati” per il “bene” dei loro abitanti e della società intera. In seguito prevarrà un nuovo significato, in accordo con l’importanza che andava assumendo la “responsabilità personale” a scapito delle “cause sociali” nell’affrontare la questione della delinquenza urbana: lo spazio criminogeno sarebbe quello in cui l’architettura e l’urbanistica favorirebbero i delinquenti.
L’architettura di prevenzione situazionale si sviluppa inizialmente attorno a quella che Nan Ellin definì “architettura della paura”: la nuova urbe diventa una “città-fortezza”, pattugliata da forze dell’ordine in assetto militare, sempre più sorvegliata dalle telecamere ma anche dagli stessi cittadini (il famigerato Neighborhood watch o vigilanza da parte dei cittadini), mentre le classi più abbienti tendono ad andare ad abitare in enclavi super-protette, gated communities o comunità chiuse, zone residenziali controllate da recinzioni, mura e polizia privata. In generale si può parlare di “architettura difensiva”, cui obiettivo sarà quello di riconfigurare i luoghi per influenzare i comportamenti con l’aiuto di tutta una serie di dispositivi materiali di protezione: muri, barriere, recinzioni, inferriate, terrapieni, fossati, siepi rinforzate… a cui si aggiungono le tastiere digitali che controllano gli accessi, telecamere e polizia. E al tempo stesso eliminando tutti quegli elementi che possono indurre i delinquenti reali o potenziali a sentirsi sul proprio terreno (vicoli ciechi, anfratti, tunnel, passarelle, corridoi, atrii traversanti, tetti terrazzati…)
In seguito questo modello verrà giudicato eccessivo e addirittura contro-producente, perciò si passerà a una nuova fase nell’affrontare la questione sicurezza in ambiente urbano: l’obiettivo sarà quello di conciliare sicurezza e urbanità. Architetti, urbanisti e paesaggisti dovranno cercare soluzioni in grado di coniugare il bisogno di protezione e la necessità di non costruire uno spazio urbano troppo “poliziesco”, motivo per cui dovranno trovare il modo di “camuffare” gli interventi securitari dietro le parvenze di una “città condivisa”, a misura d’uomo, solidale e tutte le banalità – o meglio, le menzogne – che si sentono ripetere da politici e pianificatori urbani dei giorni nostri.
Ma al giorno d’oggi siamo a un’ulteriore tappa nello sviluppo di queste pratiche e teorie: preso atto che la società è sempre più “fluida”, anche la delinquenza sarebbe sempre più “mobile e volatile”: può succedere di tutto ovunque e in qualsiasi momento, quindi è ora di anticipare l’inprevedibile, di prevedere l’improbabile. A tal proposito si parlerà della necessità di una “governance dell’aleatorio”. Ai giorni nostri tra gli spazi urbani considerati maggiormente “a rischio” ci sono anche quelli frequentati da persone di ogni tipo: infrastrutture di trasporto, centri commerciali, luoghi di svago, piazze del centro città… ovvero quei luoghi in cui maggiormente si concentrano i “flussi”. Si tratterà allora di creare dispositivi per separare e canalizzare i flussi di persone, limitare gli incroci per evitare imbottigliamenti e congestioni propizi a tutta una serie di atti malevoli – dagli scippi alle sommosse – così come a installare dei “perimetri di sicurezza” che si possano rimuovere o ampliare a seconda delle circostanze (ne sanno qualcosa i NOTAV che, in trasferta a Lione, si ritrovarono “ingabbiati” in una piazza del centro città) e servono a smistare e filtrare gli utenti in funzione della legittimità riconosciuta alla loro presenza nel dato luogo da securizzare, senza dimenticare le “corsie di circolazione” riservate alla polizia per permettere un suo intervento rapido.
Tuttavia si potrebbe concludere che questo “spazio difendibile” si dimostri piuttosto indifendibile. Innanzitutto perché l’esperienza insegna che a ogni ostacolo posto alle attività criminali più comuni, aggressori determinati, esperti e organizzati riusciranno sempre ad aggirarlo; inoltre, a causa dell’ambiente paranoico che genera, contribuisce a mantenere se non ad accentuare il sentimento di insicurezza e diffidenza che prevale oggi. Infine perché qualsiasi intervento che voglia risolvere i problemi sociali riducendoli a una questione di forma urbana (ad esempio lo spazialismo: non riuscendo a controllare le condizioni generali che determinano la comparsa di fenomeni di “violenza urbana” e la domanda di sicurezza, l’azione dei poteri pubblici e la riflessione degli esperti che li consigliano tendono a ripiegare sull’organizzazione dei luoghi, come se ciò che avviene avesse un’origine locale e spaziale) è votato al fallimento: i fatti che emergono nella città non necessariamente provengono dalla città, ma hanno origine altrove, un altrove che è allo stesso tempo da nessuna parte e dappertutto, vale a dire il capitalismo globale.

Durante gli incontri con Garnier verranno affrontati anche altri temi, di cui il sociologo francese si occupa ormai da tempo. È il caso ad esempio del concetto di gentrification, ovvero la trasformazione e “riqualificazione” dei quartieri un tempo popolari e in genere situati nei centri cittadini, a favore di una classe media “creativa”: in realtà la gentrificazione è l’espulsione delle classi popolari dai quartieri popolari, motivo per cui bisognerebbe parlare di “spopolamento” dei quartieri popolari, con un significato specifico: non tanto in senso demografico o geografico di desertificazione, quanto in senso sociologico di estromissione di queste classi.
Oppure della nuove trasformazioni vissute dalle grandi città che diventano, nel lessico ben più che nella pratica, metropoli o come si dice da noi città metropolitane: un concetto che non va preso nel senso scientifico del termine, ma lo è diventato in senso pubblicitario, mediatico. Una denominazione di origine sempre meno controllata che serve a “vendere” la città ai suoi abitanti e, soprattutto, a degli attori esterni.

Infine, proveremo ad affrontare l’eterno dilemma del “che fare”. Oggi si assiste a un ritorno in auge della questione sociale, dopo un ventennio di assopimento, e una delle parole d’ordine che sono tornate a circolare è quella di diritto alla città, formulata ormai cinquant’anni fa da Henri Lefebvre e rilanciata dal geografo marxista statunitense David Harvey. Vedremo come anche questo termine sia fatto oggetto di recupero, oggi come ieri, soprattutto da parte di una certa sinistra riformista che adopera un linguaggio apparentemente radicale per recuperare le pratiche popolari e attirare su di sé consensi e voti; di come le lotte difensive che stanno nascendo qua e là, anche in ambito cittadino, oscillino tra uno slancio ideale rivoluzionario e pratiche assai più modeste che si iscrivono nell’orbita del cittadinismo; di come i poteri pubblici ed economici abbiano tutto l’interesse a recuparare e disarmare l’azione “dal basso” nella prospettiva di una cogestione dell’ordine cittadino – o sussidiarietà, lasciare organizzare dalla “base” la maggior parte delle faccende e limitarsi a imporre dall’alto quelle più importanti. E molto altro ancora.
Jean-Pierre Garnier è nato a Le Mans nel 1940. Si è laureato presso l’Istituto di studi politici di Parigi nel 1963 con tesi in sociologia urbana e gestione del territorio e ha ottenuto due dottorati, prima in sociologia urbana all’Università di Tolosa nel 1972, poi in urbanesimo e pianificazione urbana all’Università di Parigi Créteil nel 1977.
Dal 1963 al 1966 ha lavorato all’Institut d’Aménagement et d’Urbanisme della Région Parisienne occupandosi di pianificazione urbana; dal 1966 al 1971 è stato a L’Avana all’Istituto di pianificazione fisica di Cuba dove ha lavorato alla preparazione del Piano Direttivo della città; poi dal 1971 al 1975 ha insegnato nel dipartimento di geografia urbana dell’università di Tolosa. Dal 1975 al 1983 ha insegnato alle università di Parigi Vincennes e Sorbona, e dal 1977 al 2005 è stato professore di sociologia urbana alla Scuola speciale di architettura di Parigi; infine, dal 1983 al 2007 ha occupato il posto di ricercatore presso il CNRS.
Oltre ai libri pubblicati, ha scritto innumerevoli articoli in libri e riviste, opuscoli; ha tenuto conferenze, interviste, trasmissioni radiofoniche; è membro del consiglio di redazione di riviste quali Espaces et Sociétés, L’Homme et la Société e Utopie Critique. Scrive regolarmente sulla rivista in rete internazionale Divergences oltre che su Réfractions e Le Monde libertaire.

BIBLIOGRAFIA

Une ville, une révolution: La Havane. De l’urbain au politique, Paris, Anthropos, 1973.
La comédie urbaine ou La Cité sans classes (con Denis Goldschmidt), Paris, Maspero, 1977.
Le “Socialisme” à visage urbain. Essai sur la “local-démocratie” (con Denis Goldschmidt), Paris, Editions Rupture, 1978.
La Deuxième Droite (con Louis Janover), Paris, Laffont, 1987.
Le capitalisme high-tech, Paris, Spartacus, 1988.
La Pensée aveugle. Quand les intellectuels ont des visions (con Louis Janover), Paris, Spengler, 1994.
Des barbares dans la Cité. De la tyrannie du marché à la violence urbaine, Paris, Flammarion, 1996.
La Bourse ou la ville. Paris, Paris-Méditerrannée, 1997.
Le nouvel ordre local. Gouverner la violence, Paris, L’Harmattan, 2000.
“ La voluntad de no saber ”, in Contra los territorios del poder. Por un espacio público de debates y… de combates, Barcelona, Virus editorial, 2006.
Une violence éminemment contemporaine Essais sur la ville, la petite bourgeoisie intellectuelle et l’effacement des classes populaires, Marseille, Agone, 2010.
Anarchia e architettura: un binomio impossibile seguito da Lo spazio indifendibile: la pianificazione urbana nell’epoca della sicurezza, Nautilus, Torino, 2016.

Inoltre, sono disponibili traduzioni di altri testi di Garnier a questo indirizzo:
https://istrixistrix.noblogs.org/

Nautilus, novembre 2016

Porte aperte o porte in faccia?

La settimana scorsa in occasione delle Porte Aperte in università, abbiamo distribuito il seguente testo, per parlare dei tagli alle borse di studio e delle implicazioni dell’ateneo trentino nella ricerca bellica. Nel dipartimento di Lettere abbiamo scoperto che, a quanto pare, per volantinare all’interno delle strutture universitarie occorre prima far visionare il testo allo staff del dipartimento. Nulla di comtemplato nel regolamento, ci è stato detto, ma “una prassi” per facilitare una “condivisione delle idee”. Evidentemente anche un semplice volantinaggio turba la facciata dell’ateneo in una giornata come quella delle porte aperte. All’amministrazione universitaria dà fastidio che degli studenti si rivolgano alle future matricole per parlare di questioni spinose che riguardano l’attuale gestione dell’università. porteinfaccia